Il fascino discreto dell’elettromagnetismo

Per lungo tempo le ricerche sull’effetto sanitario dei campi elettrici sono state osteggiate

Massimo Scalia, Massimo Sperini

15 Novembre 2021

Verso la fine dell’800 Jacques d’Arsonval e Nikola Tesla avevano osservato gli effetti su animali e uomini irradiati da campi elettromagnetici o percorsi da correnti alternate smorzate, prima ricorrendo all’“oscillatore” di Hertz (1888) e poi al trasformatore inventato da Tesla che operava su frequenze più elevate, in vista di possibili applicazioni alla medicina. Medici e biologi si erano poi convertiti all’utilizzo della parte oscillante del radiotrasmettitore inventato da Guglielmo Marconi nel 1895. Nel 1907 Franz Nagelschimdt introdurrà l’uso di correnti alternate smorzate di frequenza elevata come mezzo terapeutico per il riscaldamento endogeno di tessuti o dipartimenti corporei, quella che verrà chiamata diatermia. Jacques d’Arsonval in alcune sue sperimentazioni aveva raffreddato e controllato la temperatura degli animali, degli uomini e del terreno di coltura, e si era convinto dell’esistenza di un effetto specifico, non legato cioè al calore endogeno prodotto dalla radiazione elettromagnetica. Insomma, agli albori di quello che oggi chiamiamo Bioelettromagnetismo (BEM) si era già posta la questione che è poi risuonata invariata per cent’anni fino ai giorni nostri: esistono effetti biologici dei campi elettromagnetici che non siano solo quelli termci? Le linee guida dell’OMS (1984), ribadite dall’ICNIRP (ramo della Commissione internazionale per la tutela dalle radiazioni) che si occupa di quelle non ionizzanti) nel 1989, escludono, sulla base delle metodologie adottate – la “dose”, quantificata con il SAR (Specific Absortion Rate, potenza elettromagnetica. assorbita per unità di massa, W/kg, la cui definizione dipende dalla conducibilità elettrica – e dalla densità – del materiale biologico. I due parametri e il campo elettrico sono funzioni del posto e variano a seconda del tessuto, per il corpo umano si definisce un valor medio, SARm, come somma pesata, cioè un integrale sul volume V del distretto corporeo che assorbe la radiazione) – che ci possano essere effetti sanitari diversi dal riscaldamento dei tessuti. Se si rispettano i livelli di esposizione prescritti, non solo non ci sono effetti termici, ma viene anche negata ogni possibilità di effetti a lungo termine: dai disturbi del sistema nervoso centrale alle leucemie. Non tutti sono d’accordo e queste linee guida sono state respinte fino a oggi da vari Paesi – tra i quali Russia e Cina, che è difficile proporre come modelli ecologici – in virtù di diverse metodologie scientifiche, che invece la possibilità di effetti a lungo termine l’ammettono. Riguardo poi alle bassissime frequenze (ELF) degli elettrodotti, il pronunciamento dell’American Physical Society (APS) del 1995, ribadito nel 2005, esclude effetti sanitari sulla base di un’ampia rassegna di studi. E compare un nuovo tormentone, quello del “rumore termico” del materiale biologico che, secondo il suo massimo propugnatore, il fisico di Yale Robert K. Adair, è così incredibilmente più elevato dell’intensità dell’onda ELF incidente da mascherare ogni suo possibile effetto a livello cellulare. Ma come stanno per davvero le cose? Storiche sconfessioni, modellistica inadeguata, problemi di equazioni con condizioni al contorno mal poste, approssimazioni ed errori concettuali grossolani corredati da un’arroganza pari all’inadeguatezza, sono la sgradevole miscela che alimenta le posizioni “ufficiali”. Vediamo con ordine

Gli effetti biologici non termici

Molti ricercatori, a partire da d’Arsonval stesso, hanno espresso la convinzione che esistono effetti che non possono essere ricondotti alla sola cessione di energia termica da parte della radiazione incidente. Per citarne solo alcuni, negli anni 20 George Lakhovsky, in Francia, e Joseph W. Schereschewsky negli Stati Uniti. Separare sperimentalmente gli effetti termici da altri possibili effetti non è semplice e richiede grande attenzione. Un esperimento “inattaccabile” fu condotto proprio in Italia nel 1923 da due ricercatori, Luisa Gianferrari e Enzo Pugno Vanoni, irradiando con campi magnetici smorzati di alta frequenza (n = 450 kHz) una coltura di uova di riccio di mare. La “freschezza” perseguita per la coltura e il fatto che era stata tenuta in bagno termico a temperatura costante per tutta la durata dell’esperimento, consentivano di escludere che le deformazioni osservate nello sviluppo embrionale delle uova, assenti invece nella coltura non esposta alla radiazione, potessero essere dovute a degrado biologico o all’energia termica rilasciata dalla radiazione: potevano essere solo un effetto diretto del campo elettromagnetico. Molti altri biologi e medici americani, che avevano rilevato sperimentalmente le modifiche indotte dalla radiazione su ratti e insetti, concordavano con Schereschewsky che l’effetto termico non fosse quello preponderante. Il dibattito venne però pesantemente troncato dall’American Medical Association, che nel 1935 sconfessò ogni ipotesi di effetti biologici non dovuti al calore. Uno scontro analogo si riprodusse nel Dopoguerra sulle microonde (0,3 – 3 GHz) emesse dai radar. Le testimonianze degli addetti ai radar sulla percezione sonora delle microonde erano state a lungo rifiutate come frutto di fantasia o di suggestione. L’unico effetto biologico ammesso dalle normative di sicurezza era il sovraccarico del sistema di termoregolazione. Al contrario, le ricerche condotte negli anni ‘60 dal biologo statunitense Allan H. Frey, corroborate da altri studi negli anni ‘70, dimostrarono che la percezione sonora delle microonde era un effetto biologico dell’interazione tra campi ed esseri umani. Negli anni 70 William R. Adey evidenziò, in una sperimentazione su gatti, la variazione dell’efflusso di ioni di calcio dal tessuto cerebrale in corrispondenza a un gradiente di potenziale elettrico, all’interno del cervello, di 5 V/m (circa quello dell’elettroencefalografia). Questa scoperta confutava la diffusa idea che campi elettrici esterni non fossero in grado di influenzare i neuroni. Infatti, secondo la modellistica OMS e ICNIRP elaborata negli anni 70 e tuttora adottata per la protezione dell’uomo, la radiazione incidente si disperde sulla cute della testa creando al più un effetto di riscaldamento; già all’interno dello strato osseo il valore del campo elettrico si riduce a un decimilionesimo di quello incidente. Sotto la “soglia” Einc = 177 V/m, corrispondente al limite normativo di 10 mW/cm2 per la densità di potenza, non si ha nemmeno l’effetto termico. Invece – secondo una modellistica più recente e, soprattutto, molto meno approssimativa – il campo elettrico entra nel cervello anche per valori al di sotto della soglia, e mantiene valori decisamente elevati: per Einc = 100 V/m, il campo dentro il cervello è E = 46,2 V/m a 2 cm di profondità dal tessuto osseo e 20,6 V/m a 5 cm (Kuster e Balzano, 1992); se il campo incidente sulla cute è di 130 V/m, dentro il cervello è 48 V/m a 2 cm e 17,2 V/m a 5 cm (King, 1995). Altro che elettroencefalogramma! Ma a questo punto si deve affrontare la questione della teoria e dei modelli.

L’uomo “sferico”

Nella modellistica sottesa alle norme tecniche internazionali, una sfera costituita da un materiale conduttore con le proprietà elettriche dei tessuti biologici è stata considerata come un’approssimazione soddisfacente per rappresentare il corpo umano, la testa e la cellula, secondo le indicazioni del fisico Herbert P. Schwan (1972). L’inadeguatezza del modello, e alcuni gravi errori di calcolo, furono oggetto della critica sistematica operata nella seconda metà degli anni 90 da Ronold W. P. King, un fisico con rilevanti capacità matematiche, che intraprese questa nuova fase delle sue ricerche alla tenera età di 90 anni. In svariate pubblicazioni scientifiche King osservò che non solo era errato il calcolo della conducibilità elettrica nel modello “sferico”, ma che era meglio rifarsi a un più realistico modello “a cilindro” per il corpo umano e, soprattutto, porre per le equazioni di Maxwell, cui soddisfano le onde elettromagnetiche, le giuste “condizioni al contorno” sulla superficie di separazione tra l’aria e la cute del corpo. Queste correzioni, verificate su vari esempi concreti, rendono conto delle colossali differenze rilevate, per esempio, nel caso già visto dei radar. King e gli altri che avanzavano queste profonde revisioni sono però rimasti confinati nelle riviste scientifiche. Da un lato l’atteggiamento di chi sconsiglia investimenti su tali ricerche invocando la mancanza di riscontri teorici o sperimentali convincenti, e “raccomanda” invece settori più consolidati (vedi i pronunciamenti dell’APS). Dall’altro gli enormi interessi industriali dei settori coinvolti, che inducono alla “prudenza” molte riviste scientifiche; per restare in casa nostra, molto travagliato fu il percorso per la pubblicazione di un lavoro che riportava gli effetti osservati sull’acetilcolinesterasi, un enzima importante nella trasmissione dei segnali neuronali, esposto al campo irradiato da un comune cellulare: la trasformazione dal suo stato naturale in idro-gel (Barteri, 2004). Quanto al rumore termico, il punto di vista e i calcoli di Robert Adair, prodotti nel 1990 in una combattuta vicenda che si concluse con la sostanziale sconfitta del tentativo di “apertura” dell’EPA – l’Agenzia per l’ambiente americana – sugli effetti degli elettrodotti, sono sacralmente citati a tutt’oggi negli articoli scientifici come “Adair’s constraint”, cioè il mascheramento da parte del rumore termico di ogni effetto biologico dei campi “deboli” emessi dagli elettrodotti. Peccato che le tesi di Adair siano inficiate da un grave errore concettuale – rappresentare la membrana cellulare come un “resistore” puro, in contrasto peraltro con la teoria di Johnson e Nyquist cui ci si rifà – rimosso il quale il cosiddetto “campo elettrico di rumore” schermante viene ridotto di oltre diecimila volte (Scalia e Sperini, 2012). Ma questa, con l’ormai ventennale dibattito sull’effetto Zhadin, è una vicenda che oggi appassiona al più gli addetti. Quando si guarda ai limiti previsti dalla normativa italiana – 6 V/m come valore di attenzione per qualunque frequenza e 20 V/m come limite nell’intervallo da 3 MHz a 3 GHz – comitati di cittadini, genitori preoccupati per i figli o amministratori sensibili restano delusi dai risultati delle campagne di monitoraggio. Infatti una buona mappatura per caratterizzare l’ambiente elettromagnetico evidenzia che gran parte delle aree è rappresentata da valori medi decisamente inferiori a quelli di legge. Si rendono necessarie allora due considerazioni, emerse con molta evidenza nella campagna che abbiamo condotto tramite la convenzione tra CIRPS – Università “La Sapienza” e ARPA Lazio. Nelle colture cellulari esposte negli stessi ambienti dove erano state fatte le misure di campo – era la prima volta che si applicava su larga scala il metodo proposto da Fiorenzo Marinelli, che ha seguito la sperimentazione in vitro – si sono osservate modificazioni significative dell’evoluzione cellulare già per valori di E ≥ 3,5 V/m. Il valore del campo naturale nell’intervallo delle frequenze dove operano le stazioni trasmittenti è 194 μ/V, cioè diecimila volte più piccolo di 2 V/m, il valor medio del campo artificiale rilevato in diverse aree delle mappatura. Situazioni di questo tipo, che definiscono l’“inquinamento elettromagnetico”, sono in atto da meno di due generazioni. L’uomo ha stabilito sull’arco di migliaia d’anni un equilibrio con quel valore naturale e sorge inevitabile la domanda sul che cosa può accadere ai soggetti esposti prima che, tra moltissime generazioni, si possa stabilire un nuovo equilibrio.

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